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Pubblicato su politicadomani Num 105 - Luglio 2010
I nemici dello Stato sociale
di Marco Vitale
Lo Stato sociale è una cosa seria che dobbiamo tenere molto cara. Chi predica la fine dello Stato sociale è uno che capisce poco. Lo Stato sociale da noi, in Europa, ha radici molto antiche. Non è solo il cuore dell’economia sociale di mercato di matrice tedesca postbellica; non è solo il cuore della Dottrina Sociale della Chiesa; è anche il cuore della grande tradizione liberale sociale italiana da Cattaneo ad Einaudi da Sturzo a Vanoni. Ma proprio per preservare lo Stato sociale dobbiamo adattarlo (se la vita si allunga non può non spostarsi di conseguenza il termine d’inizio della pensione), pulirlo, alleggerirlo quando è utile e possibile (erano preziose le centrali del latte comunali nel corso della prima metà del ‘900; oggi sono una idiozia; e lo stesso per le farmacie comunali, salvo poche situazioni speciali); tenerlo efficiente (il servizio sanitario nazionale è un grande bene, come Obama ha imparato, ma noi facciamo di tutto per renderlo inefficiente quindi demolirlo) e soprattutto tenerlo indenne dal mismanagement che deriva dai partiti, dai ladri (le varie “cricche” che perforano il nostro Stato come fosse un formaggio emmenthal) e dalla malavita organizzata che, attraverso la corruzione ben mascherata, si sta infiltrando in tanti gangli della nostra smisurata e costosissima macchina politica e amministrativa. È chi non segue questi principi e strilla istericamente di fronte ad ogni tentativo (anche piccolo, troppo piccolo, come quello dell’ultima finanziaria) di invertire la rotta, il vero nemico dello Stato sociale.
A chi gli chiedeva ironicamente in cosa consistesse il suo essere di sinistra, Ezio Vanoni, il grande ministro della ricostruzione, nell’ultimo discorso prima di morire, pronunciato in Senato il 16 febbraio 1956 a difesa di un bilancio severo, rispondeva:
«Guai a noi se indulgessimo, in qualsiasi momento, a spese inutili, guai a noi se indulgessimo in qualsiasi momento, per considerazioni di tranquillità e di popolarità, nell’amministrazione delle entrate del nostro Paese. Noi non risolveremo mai i nostri tragici problemi di fondo, se non sapremo trovare il modo di destinare, nei limiti delle nostre forze, delle nostre capacità, delle nostre valutazioni ogni lira disponibile per il benessere della gente più umile che popola il nostro Paese. Guai a noi, se nell’amministrare i tributi non sapessimo usare la giusta severità, il giusto equilibrio nel saper prendere a chi può, per dare a chi ha bisogno di avere… Questa è la nostra politica di sinistra».
E due anni prima illustrando la sua politica di sviluppo, al V Congresso della Democrazia Cristiana, il 25 giugno 1954, con grande lucidità, affermava:
«L’Italia è ormai posta di fronte ad un bivio; o essa saprà continuare ed intensificare lo sforzo condotto nel dopoguerra per la sua rinascita e per la ricostruzione, o la distanza cogli altri Paesi è destinata ad accrescersi ed il nostro destino potrebbe essere di cadere in condizioni quasi coloniali, dalle quali non sapremmo più riprenderci». E illustrava che non poteva esserci politica di sviluppo senza passare per un grande rigore finanziario, che liberasse risorse per gli investimenti.
Siamo ritornati ad un bivio analogo e dedico queste parole di un grande italiano a tutte le persone di sinistra che, in buona fede, cercano di contribuire al buongoverno del paese, in spirito di verità.
Non dobbiamo guardare al debito pubblico separatamente, ma al debito aggregato (DIL), cioè al debito di tutti gli attori del sistema economico nazionale (famiglie, imprese, PA) rispetto al PIL
Con questa tesi consolatoria l’Italia risulta con un debito totale lordo aggregato ben minore, in percentuale del PIL, di Giappone, Gran Bretagna, Spagna, Stati Uniti, ed è abbastanza vicina a Francia e Germania, come da scheda in basso. Si tratta di una tesi che ha un certo fondamento e che è utile per comprendere alcuni aspetti importanti:
nei paesi della bolla il debito pubblico non cresceva ma a drogare il PIL era il debito privato; poi il debito pubblico ha dovuto correre in soccorso del debito privato insostenibile ed è, a sua volta, esploso; la verifica della solidità globale di un paese non può basarsi solo sull’esame del debito pubblico ma sullo stato patrimoniale globale aggregato; l’euro ha attualmente fondamenti più solidi di dollaro e sterlina; nel valutare lo stato di salute di un’economia è necessario guardare con attenzione anche allo stato patrimoniale delle famiglie e delle imprese.
Tutto ciò è vero, però, non può sminuire il pericolo e gli effetti negativi di un alto debito pubblico. La compensazione tra debito pubblico e debito delle famiglie non è possibile, nella concretezza della vita economica. La gestione pubblica è distinta e separata dalla gestione dei privati. Creditori e debitori dei due aggregati sono diversi e distinti. Se c’è insolvenza dello Stato poco serve dire che molti privati hanno, invece, una posizione finanziaria attiva. Buon per loro, ma lo Stato sarà, comunque, travolto dalla sua insolvenza. è la situazione che si verifica in parecchie aziende: azienda povera ed azionisti ricchi. I creditori dell’azienda povera la tratteranno come tale, almeno sino a quando gli azionisti ricchi non decideranno un adeguato aumento di capitale. Analogamente agenzie di rating, analisti, enti finanziatori, speculatori, guardano allo Stato ed alle sue capacità o meno di far fronte ai suoi impegni, a prescindere dallo stato di salute finanziaria delle famiglie.
Perciò il debito pubblico elevato resta un guaio, un pericolo ed un peso, “un vulcano maledetto” sul quale siamo seduti e se non faremo qualcosa di serio, prima o poi, ci scotteremo violentemente il sedere, ma soprattutto non potremo impostare nessuna nuova strategia di sviluppo perché intorno al collo abbiamo questo cappio che appena ci muoviamo ci stringe e ci fa male.
Non è, dunque, con queste tesi consolatorie (per quanto utili sotto certi aspetti), che esorcizzeremo e domeremo il problema di un debito pubblico eccessivo, che frena o impedisce ogni sviluppo serio, e che ci tiene inchiodati a strategie di pura difesa.
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