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Dietro le elezioni
USA Marianna Bartolazzi Due anni fa, George Bush aveva conquistato la Casa Bianca con meno voti complessivi di quelli di Al Gore. Una vittoria sul filo del rasoio che si è trasformata in un trionfo. Dalle pagine de l'Unità, Furio Colombo afferma: "Gli elettori [americani] sono cittadini informati, in un paese con buona televisione e buoni giornali. Si sono accorti che non vi era alcuna opposizione [ ]. Perciò hanno votato in pochi. E hanno votato per Bush, che almeno parla chiaro e dice chiaro quello che vuole" (l'Unità, 9/11/2002).Ma perché, ci si chiede, "non vi era alcuna opposizione"? Per amore della chiarezza, un po' di cronistoria: prima di queste ultime elezioni, i repubblicani erano in maggioranza alla Camera ma in minoranza al Senato. Il capo della maggioranza al Senato, Tom Daschle, democratico, era il numero due delle istituzioni americane; perciò il partito d'opposizione possedeva fino a ieri molta visibilità e un grande potere. Negli USA la politica estera si decide al Senato e, anche se il Presidente è dotato di un enorme potere secondo la costituzione, nessuna decisione può passare se non viene approvata dal Senato. Per i democratici si trattava di decidere se affidare al Presidente una delega senza precedenti storici per fare una guerra, oppure, chiamando democraticamente in causa gli elettori, garantire ai cittadini americani l'esistenza di altre voci e altre forze oltre alla guida presidenziale. La scelta è stata fatta con le elezioni del 5 novembre. E il risultato è che dal 5 novembre, ma probabilmente da molto prima, i democratici non hanno più un leader da contrapporre a George Bush; cosa questa che si traduce nella previsione di una campagna per le presidenziali del 2004 a dir poco dura. Considerato anche che Tom Daschle, il capogruppo dei democratici diventati minoranza, secondo la legge USA, ha perso la possibilità di concorrere per la presidenza tra due anni. I commentatori di queste elezioni affermano: "Si è trattato di un'elezione fuori norma, perché l'America è ancora sotto shock dell'attacco alle Due Torri. Gli elettori hanno voluto dire che si sentono in guerra e stanno col Presidente". E ancora: "[gli elettori] non volevano indebolirlo in questo frangente, qualunque dubbio potessero avere sulla guerra all'Iraq". Sorge il ragionevole dubbio che sia stato un voto dato per paura. Una strategia della paura da parte dell'amministrazione americana è plausibile: incubi batteriologici, paura di attentati terroristici, allarmi della più varia natura e nemici sempre più pericolosi stanno diventando sempre più consistenti e reali nell'immaginario collettivo americano. Guardando a queste elezioni con gli occhi della razionalità, si potrebbe commentare con Siegmund Ginzberg che: "Forse nessun'altra elezione americana degli ultimi decenni si era giocata, quanto questa, sul filo della paura" (l'Unità, 7/11/2002).
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Num 20 Dicembre 2002 | politicadomani.it
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