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L'Aja e il muro
Il muro costruito da Israele viola le leggi internazionali, va smantellato e i proprietari palestinesi espropriati vanno risarciti. È questo il parere emesso dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja il pomeriggio del 9 luglio. I giudici hanno detto che Israele ha violato il diritto internazionale umanitario, ostacolando la libertà di movimento e di lavoro, il diritto alla salute e all'educazione dei palestinesi, pur avendo firmato le relative convenzioni internazionali. Nel documento, lungo oltre 50 pagine, si specifica inoltre che in base al materiale visionato "la scelta di Israele di costruire il muro non sembra avere a che fare con i suoi obiettivi di sicurezza". Non è stata invece contestata la costruzione di barriere difensive all'interno della "linea verde", il confine israeliano prima del 1967.
La sentenza è passata con 14 voti favorevoli e uno contrario, quello del giudice statunitense Thomas Buerghenthal. La Corte ha anche difeso la sua autorità e, attraverso una lunga analisi storica e legale della situazione a Gaza ed in Cisgiordania, ha affermato di avere giurisdizione sulla questione.
Il muro, una barriera di 700 chilometri eretta da Israele per difendersi dalle incursioni terroristiche, era già stato contestato il 30 giugno dall'Alta corte israeliana: nella sentenza la corte obbligava Israele a modificare il percorso del muro. Il governo di Sharon aveva incassato il colpo e si era dimostrato propenso ad eseguire la sentenza dei giudici di Gerusalemme. Ma allo stesso tempo aveva messo le mani avanti, dicendo chiaramente che qualora fosse arrivata una condanna dall'Aja, questa stessa condanna sarebbe stata disattesa. Cosa che è puntualmente avvenuta.
Gli Stati Uniti hanno appoggiato Sharon. Scott McClellan, portavoce della Casa Bianca, ha fatto notare che la sentenza dell'Aja non è stata "appropriata".
L'Europa, da sempre schierata contro il muro, accoglie la sentenza dell'Aja. Javier Solana, designato superministro degli esteri dell'Unione, ha espresso soddisfazione per la decisione dei giudici.
Prigionieri sul mare
Per oltre 10 giorni il mercantile tedesco Cap Anamur, che ha soccorso 37 cittadini sudanesi in fuga dalla guerra e dalla terribile crisi umanitaria nella regione occidentale del Darfur accogliendoli a bordo, è rimasto bloccato in acque internazionali al largo del Canale di Sicilia. Solo la mattina dell'11 l'Italia ha concesso il permesso di sbarco (temporaneo), quando il capitano della nave ha lanciato un disperato appello per la situazione di pericolo che si era creata. Una situazione talmente grave che non è stato possibile neanche a due missionari comboniani salire a bordo per celebrare la Messa.
I rifugiati chiedono lo status di rifugiati e il diritto di asilo per motivi umanitari.
La nostra costituzione, all'art. 10 prevede: "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge."
Il problema è che l'Italia non ha ancora approvato nessuna legge per il diritto di asilo e il Governo non ha ancora emanato i regolamenti di attuazione della legge Bossi-Fini: la gestione del contrasto all'immigrazione clandestina e la delicata questione dell'ammissione in procedura di chi potrebbe richiedere asilo è stata affidata esclusivamente alla discrezionalità dell'autorità di polizia.
Gli accordi stretti con i paesi di provenienza dei fuggiaschi (nel Nord-Africa, nell'Europa orientale, e nell'estremo oriente) non garantiscono il riconoscimento effettivo del diritto di asilo previsto dalle Convenzioni internazionali e dalle Costituzioni nazionali. Si verifica quindi che gli stranieri che per ragioni umanitarie e politiche arrivano sulla penisola (o anche solo nelle sue acque territoriali) sono rinchiusi in campi di permanenza obbligatoria dai quali molti non possono fare altro che fuggire per andare ed ingrossare le file dell'immigrazione clandestina ed essere perseguiti come criminali.