Cinema
Fahrenheit 9/11
Un eccellente lavoro di documentazione fatto da un grande giornalista, colto e preparato, e un'incredibile raccolta di materiale d'archivio
Non amo molto i critici. Di solito parlano come se avessero la ragione dalla loro, e spesso vogliono spiegare anche ciò che non si può spiegare. Hanno sempre una risposta pronta, e un pizzico di veleno anche quando parlano di un film che in fondo non gli è dispiaciuto (escluso Mollica, ovviamente). Ma, occupandomi di cinema, prima vera passione della mia vita, ho sempre seguito la critica cinematografica, ho letto molti libri, ne ho subìto l'influenza, sia pure, più di una volta, per prenderne le distanze. Ho sempre letto le recensioni dei film, prima e dopo averli visti. Ma per una volta non l'ho fatto.
In un impeto di orgoglio ho ritenuto questa volta la mia opinione sufficiente, e non ho letto nessuna critica su Fahrenheit 9/11, l'ultima fatica di Michael Moore, il vulcanico regista dell'ottimo Bowling a Columbine, che avevo scoperto quasi per caso in un cinema d'essai a Roma. Ben prima dell'Oscar e delle chiacchiere che hanno spianato la strada ai nuovi premi e alle nuove inevitabili chiacchiere che hanno accolto il suo ultimo film. Ho atteso con entusiasmo questo documentario, con la certezza di trovarmi davanti ad un'opera importante, sia per il tema trattato, sia perché a trattarlo era Michael Moore, l'uomo che ben prima di diventare una superstar pluripremiata
da Oscar, Palma d'Oro ed incassi multimiliardari, andava in giro per gli Stati Uniti chiedendosi cosa stava combinando George W.Bush, quello stupido uomo bianco, al suo Paese.
Le mie certezze, i miei pregiudizi e la mia chiusura mentale caratterizzeranno questa mia recensione "di parte" su un film chiaramente poco imparziale.
Moore non ha mai fatto mistero della sua totale avversione a Bush, l'uomo e il presidente, e ciò che mi colpisce è il candore con cui lo ha sempre ammesso. È così sfacciato ed impertinente da suscitare sentimenti forti, lo si ama o lo si odia. Non va per il sottile, è chiaro, diretto, sfrontato. È caustico, tagliente, impertinente, molto brillante e sarcastico, decisamente irritante. Ha l'entusiasmo, la grinta, la rabbia di un partigiano ma lo definirei tutt'altro che un democratico convinto, tanto che ha dichiarato che voterà Kerry tappandosi il naso (lo capisco, io ho ancora su la molletta che ho usato nelle ultime elezioni, a Giugno).
Ha dimostrato in Fahrenheit 9/11 che il suo interesse principale va per gli uomini, le persone comuni, quelle maggiormente colpite dai brogli della politica e dagli orrori della guerra. Ciò che gli sta a cuore è raccontare le storie, i volti, le emozioni che si celano dietro una bandiera o una sigla. Chiaro, è facile fare demagogia mostrando i corpi mutilati dei soldati, gli occhi terrorizzati dei bambini irakeni, è facile commuovere mostrando il lancinante dolore di una madre che ha perso un figlio, ma sono tutte cose vere, non è finzione. Non si può far finta di non sapere certe cose.
E quindi io perdono a Michael Moore gli eccessi (la Baghdad bucolica ricostruita prima di un bombardamento americano) e le lungaggini (2h 10' di film, ad un ritmo martellante), perché c'è molto di più in Fahrenheit 9/11. C'è l'enorme talento di un ottimo regista, che ha reinventato il genere Documentario, rendendolo non meno appassionante di un qualsiasi film di finzione, usando la musica, il montaggio, il commento off con inventiva ed originalità.
C'è un eccellente lavoro di documentazione fatto da un grande giornalista, colto e preparato, e un'incredibile raccolta di materiale d'archivio. C'è il coraggioso tentativo di denunciare una situazione insostenibile da parte di un artista coraggioso, conscio dell'importanza del proprio ruolo, che sfrutta la propria visibilità, il proprio successo per lanciare un accorato appello, er tentare di svegliare le coscienze di chi lo ascolta. "Così come Fahrenheit 451 è la temperatura a cui bruciano i libri nel romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 9/11 è la temperatura a cui brucia la democrazia nel documentario di Michael Moore".
Fahrenheit 9/11 è un film importante, da vedere al di là delle proprie posizioni politiche e delle proprie idee su quello che sta accadendo in Iraq e nel mondo. Quentin Tarantino ha giustificato la Palma d'Oro assegnata a Cannes a Moore dicendo che non si è trattato di un premio politico, in un momento delicato, ma semplicemente di un sacrosanto riconoscimento al più bel film in concorso.
Non vogliamo credere a Tarantino?