|
Come affrontare le diversità?
Provate a professarvi razzisti. Ne ricaverete un linciaggio verbale in piena regola. Pronto a deprecare le vostre vergognose idee troverete un fronte inspiegabilmente eterogeneo. Progressisti e conservatori, studenti e pensionati, intellettuali e casalinghe vi riverseranno addosso una lista d'improperi, secondo la provenienza variabili dall'infame al politicamente scorretto. Troverete conforto al più in qualche "testa rasata". Bene ci viene da dire: il razzismo è morto, la stessa parola razza è tabù e chi la nomina è sottoposto a censura sociale (se non giuridica). Ho l'impressione che ci troviamo un po' nella situazione di chi, afflitto da un grave male, non ne voglia pronunciare il nome. Il razzismo, svestiti i panni ormai logori del "razzismo biologico", ha indossato il fine abito del "razzismo culturale". Così i benpensanti d'ogni estrazione proclamano il loro rispetto per le culture altre, ma rilevano ad un tempo l'impossibilità di convivere per gruppi che s'ispirino a differenti sistemi di norme e valori. Come fa notare F. Ferrarotti (F. F.'93), questo razzismo "colto" vanta radici che traggono la loro linfa non già dalle insostenibili teorie di J. A. De Gobineau, bensì da una lunga tradizione di pregiudizio eurocentrico. Pregiudizio in cui sono incappati in molti da Machiavelli a J. Stuart Mill e perfino il cosmopolita Voltaire. È da notare che l'esaltazione delle culture come sistemi chiusi, autosufficienti e fortemente coerenti è il primo passo verso una definizione di cultura come entità metastorica, immutabile ed impossibilitata allo scambio con gli altri sistemi. Si comprende in quest'ottica il terrore di molti circa "l'invasione islamica". Nella logica dei muri contrapposti la partita si gioca "democraticamente" sui numeri: la cultura di maggioranza modella su di se la società e lo stato. Certo è possibile che un giorno la maggioranza degli Italiani sia di cultura islamica, ma mi pare improbabile che l'Italia possa diventare un paese integralista. La coesistenza di culture differenti è di per sé un antidoto contro ogni forma di stato etico o teologico. Non solo, è quasi inevitabile che differenti universi culturali entrando in contatto s'influenzino e si modifichino vicendevolmente. Lo scambio culturale va salutato come un arricchimento e favorito poiché dalla conoscenza reciproca non può che scaturire una crescita comune. La strada da perseguire non deve essere quella del "melting pot"ciò è dell'assimilazione degli immigrati al modello culturale prevalente, la matrice culturale non deve essere rinnegata: deve diventare il punto di partenza per un confronto che solo può garantire la nascita di "co-tradizioni" culturali, punti d'incontro tra mondi diversi in un cammino comune. È la sfida della multicultura: la possibilità di riempire di significato la "morale minima" di cui parla T. Engelhardt (vedi "Politica Domani"n°2). Questa è una via obbligata: è assurdo ostinarsi a negare il diritto di ogni uomo di spostarsi dove meglio crede accampando fittizi diritti di "sangue" o "di suolo". Dichiarazioni come quelle del cardinale Biffi (opportunità di favorire l'immigrazione di cristiani e limitare quella di mussulmani) non fanno altro che alimentare la logica dei sistemi chiusi contrapposti, ostacolando lo scambio culturale che favorirebbe le correnti più tolleranti ed aperte delle diverse culture. Così le recenti intese stipulate dallo stato italiano con Buddisti e Testimoni di Geova, in ossequio all'articolo otto della costituzione, vanno salutate come tardivo riconoscimento della pari dignità di fronte alla legge di tutte le religioni (anche se ad esempio non esiste ancora alcun'intesa con l'islam). Solo garantendo diritti pari a tutte le confessioni è possibile far passare quella "cultura del diritto" che può diventare una delle sopraccitate co-tradizioni. Non vorrei cadere nella faciloneria: la convivenza tra culture diverse è un problema serio, ma questo non può giustificare la violazione di diritti fondamentali. Se si riuscirà a far vivere stati in cui le diversità culturali convivono ed interagiscono con pari dignità, si potrà tentare la scommessa di un organismo politico mondiale realmente funzionante. Per ora l'occidente si ostina ad imporre il suo modello spacciandolo per l'unico possibile. Il futuro è nelle nostre mani; forse potremmo cominciare leggendo qualcosa dal Corano?
|
||
Num 4 Aprile 2001 | politicadomani.it
|