Etiopia
Carestia e siccità in Etiopia
Giochi politici e malgoverno alla base dei problemi del Paese
Una terribile carestia sta colpendo gran parte dell'Africa subsahariana. Coinvolge ormai più di 40 milioni di persone e non sta affatto risparmiando l'Etiopia. Sembra che carenza di cibo e siccità siano diventati endemici in questo sfortunato Paese, costretto sin dall'antichità a convivere con questi flagelli. In tempi più vicini ai nostri è impossibile dimenticare la grande carestia del 1973-74, alla quale poco dopo fece seguito quella degli anni ottanta, la più dura, che ha spezzato le gambe ad un Paese che con difficoltà tentava di risollevarsi dalla tragedia del decennio precedente. La carestia e la siccità raggiunsero il loro apice a cavallo tra gli anni '84-'85. Gli interventi della comunità internazionale come pure la mobilitazione delle potenze occidentali furono imponenti, tuttavia peccarono per tempismo: a fine '84 il numero dei morti era salito a 300.000; tra gli 800 e i 1000 era quello delle persone che perdevano la vita ogni giorno nei campi profughi più grandi.
La carestia del 1984, conosciuta anche come tragedia dell'Ogaden, coinvolse poco meno di 8 milioni di persone, e il conto finale delle vittime superò il milione.
La carestia che sta colpendo attualmente l'Etiopia è una minaccia per circa 15 milioni di abitanti moltissimi dei quali corrono il rischio di morire.
I campi aridi e la moria del bestiame (giunta anche al 50% dei capi) denunciati dal "Programma Alimentare Mondiale" (PAM) non sono giustificabili con la sola carenza di risorse del Paese. Se infatti è vero che l'Etiopia non può competere per risorse con la maggior parte dei paesi sviluppati, è altrettanto vero che la quantità d'acqua disponibile è più che sufficiente per la vita e per le attività lavorative (in alcune sue regioni è piovuto più che in Italia). Nel Paese, dove non mancano di certo le terre e l'agricoltura e l'allevamento rappresentano la maggiore fonte di sostentamento (fatta eccezione per le donazioni, che ammontano ad 1/6 del PIL), la normalità delle precipitazioni e la disponibilità di acqua stridono con i gravi problemi che l'affliggono.
Sono molti a pensare che la carestia in Etiopia non sia altro che un gioco di potere, uno strumento di controllo per le politiche del governo locale. Secondo James Morris, direttore del PAM "… la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio". Parole che rimangono inascoltate presso la comunità internazionale, sempre pronta a rispondere con aiuti economici alle disperate richieste di aiuto, ma distratta e distante quando si tratta di agire per colpire alla base le cause di una carestia annunciata ed evitabile. Lo sguardo delle potenze occidentali è rivolto altrove e non coglie la cattiva gestione dei fondi da parte del governo centrale, che preferisce investire nella costruzione di strade - utili a rafforzare il proprio controllo e di conseguenza il proprio potere - piuttosto che in semplici sistemi di irrigazione molto più utili alla popolazione.
Un esempio emblematico di malgoverno è quello riguardante Bali, considerato una volta il granaio dell'Etiopia. Qui, nonostante le precipitazioni siano state nella norma, la produzione agricola di cereali non è stata neanche minimamente sufficiente. Le cause di questa mancata produzione sono tutte politiche. Nella legislatura etiope non esiste il diritto di proprietà privata dei terreni; il governo ha potuto decidere così di togliere le terre ai vecchi proprietari, che le curavano da anni e sulle quali avevano investito, per consegnarle a persone più in sintonia con le sue ideologie. L'avvicendamento, ovviamente, non ha consentito il rispetto dei cicli di coltivazione e il crollo della produzione è stato inevitabile.
Quando, nel 1973, il giovane giornalista inglese Jonathan Dimbleby scoprì la carestia che l'imperatore Selassié stava tenendo nascosta al resto del mondo, scrisse come conclusione del suo reportage: "Queste persone hanno bisogno di cibo, medicine e coperte, e ne hanno bisogno adesso". L'appello di Dimbley commosse e mosse l'occidente, ma i fatti degli ultimi anni hanno smentito le sue conclusioni, pur non intaccando l'importanza del suo lavoro. Il tempo ha infatti dimostrato che gli aiuti materiali - intrappolati spesso fra le strette maglie della burocrazia non bastano - e che occorre una maggiore attenzione da parte dei Paesi più potenti e una maggiore vigilanza, affinché le amministrazioni locali operino in modo corretto.
Etiopia
67,8 milioni di abitanti. Ma la crescita è condizionata dalla eccessiva mortalità dovuta all'Aids. Una piaga che ha prodotto minore aspettativa di vita (meno di 40 anni) e un più alto tasso di mortalità infantile (102 /1000).
L'80% della popolazione pratica l'agricoltura e l'allevamento, ma il 50% vive sotto la soglia di povertà, in un paese dove essere poveri è la condizione normale. Il settore agricolo soffre per le frequenti siccità e per l'arretratezza delle pratiche agricole, oltre che della concorrenza delle multinazionali: come il crollo del prezzo del caffè (nel 2002 l'Etiopia aveva esportato caffè per 156 milioni di dollari) che ha spinto gli agricoltori verso la coltivazione del più remunerativo quat (una droga).
Anche le imprese non riescono a decollare. Poiché la terra appartiene tutta allo Stato che la affitta con contratti a lungo termine, gli imprenditori non riescono ad avere finanziamenti: non possono infatti produrre alcun tipo di proprietà in garanzia.
L'Etiopia è l'unico Paese nel continente africano ad avere sempre mantenuto la sua libertà e indipendenza (ad eccezione della parentesi coloniale italiana, 1936-1941). Monarchia fino al 1974, quando l'imperatore Haile Selassie (sul trono dal 1930) fu deposto da un golpe militare. I conflitti interni durarono fino al 1991, quando le forze dell'EPRDF (Ethiopian People Revolutionary Democratic Front) rovesciarono la giunta militare, promulgarono la costituzione (1994) e indissero le elezioni (1995).
Esiste da tempo un conflitto fra Etiopia ed Eritrea su un problema di confini a causa dell'attribuzione di Badme e di altri territori all'Eritrea. Un errore, dicono gli etiopi, della commissione indipendente per la delimitazione dei confini, che non ha tenuto conto della "geografia umana".