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Pubblicato su Politica Domani Num 50/51 - Set/Ott 2005
Itinerari
A zonzo per il Lazio: Nemi e il suo lago
Il culto di Diana aricina è intimamente legato al bosco, nemus, da cui il nome del paese sorto in età medievale
di Alberto Foresi
La località di Nemi è, nella stagione estiva, una delle mete preferite per le gite che Romani e Laziali sono soliti fare. Oltre alla vicinanza e all'amenità del luogo, quasi posto su di un balcone sull'omonimo lago, attirano le particolari condizioni climatiche che lo caratterizzano. La frescura che contraddistingue Nemi anche nei giorni più caldi dell'estate rendono la cittadina rifugio prediletto per tutti coloro che, costretti in città, vogliono trascorrere una serata lontani dal caldo e dall'afa, assaporando magari le fragoline di bosco, peculiarità gastronomica del paese. Meno noto è il fatto che Nemi sia stata, nell'età antica, uno dei luoghi più importanti della campagna romana. C'è infatti sul declivio della collina prospiciente il lago uno dei più importanti luoghi di culto del pantheon romano, quello di Diana Aricina.
Il culto di Diana è intimamente legato al bosco, nemus in latino, da cui il nome che assumerà il paese, sorto in età medievale in conseguenza ad un insediamento monastico. Esso ben si collocava nei selvaggi e impenetrabili boschi che circondavano le rive del lago, di cui ora rimane traccia solo nel parco della Villa Chigi di Ariccia, a causa delle radicali trasformazioni subite dal territorio per mano umana. Presumibilmente, dopo la vittoriosa battaglia del Lago Regillo (469 a.C.), il culto venne trasferito dai boschi di Ariccia a Roma, nel santuario posto sull'Aventino. Ciononostante il legame tra la dea e la cittadina laziale rimarrà indissolubile. Agli inizi dell'età imperiale il poeta Ovidio (nei Fasti) testimonia il perdurare di un particolare rito religioso a lei dedicato, una sorta di processione da Roma ad Ariccia compiuta da donne che reggevano delle fiaccole ardenti, come per stimolare, per magia simpatica, la sua funzione essenziale di portatrice di luce.
Il culto nei confronti di Diana - che solo in età augustea verrà confusa con la greca Artemide, protettrice delle donne - si ricollega infatti alla Luna e alla luce notturna che essa dispensa, alternandosi a Giove, il dio del giorno. Lo stesso nome, Diana, deriva dall'aggettivo latino dius - luminoso: Diana si identifica con la Luna…è chiamata Diana perché della notte essa fa, per così dire, giorno (Cicerone).
La peculiarità del culto di Diana consisteva nel fatto che, in età arcaica e repubblicana, non trovava punto di riferimento in un tempio come noi siamo soliti intendere, ma bensì proprio nelle impenetrabili selve del bosco, di cui la dea era padrona e signora. E proprio nella selva risiedeva il sacerdote a lei preposto, detto rex Nemorensis. Un sacerdote particolare, in quanto si trattava di un sacerdote guerriero, solitamente uno schiavo fuggitivo o un ex gladiatore. Particolare suggestione evoca la modalità di trasmissione di uomo in uomo della carica sacerdotale, documentata ancora in piena età imperiale dallo storico Svetonio. Il sacerdote preposto al culto doveva avere come prerogativa la pienezza della sua forza. Quando, debilitato dagli anni, un nuovo pretendente voleva prenderne il posto, dopo aver reciso il cosiddetto ramo d'oro - un rametto di vischio che spontaneamente nasce sulle querce del bosco - doveva inoltrarsi armato nelle selve e, incontratolo, sfidarlo a duello e riuscire ad ucciderlo per poter così subentrargli, al termine di una sorta di sacrificio umano. Teatro di tale suggestivo e sanguinoso rituale erano proprio i boschi che circondavano il lago, il territorio su cui si estendeva il dominio della dea. Fu solo in età imperiale che si assistette alla costruzione di un vero e proprio tempio a lei dedicato, di cui rimangono i resti sul versante orientale del lago, con annessa un'arena, teatro della sfida e del duello.
Legato al culto per Diana appare anche il successivo sviluppo, in età imperiale, della località, ove sorse una villa presumibilmente di proprietà del demanio regio. Qui erano alla fonda le due enormi e lussuose navi dell'imperatore Caligola, quasi delle regge galleggianti, recuperate al termine di una poderosa campagna di scavo condotta in epoca fascista. Il recupero fu effettuato con il progressivo svuotamento del lago, imbracando le due imbarcazioni su dei binari posti al di sotto di esse e trainandole in capannoni appositamente costruiti per dar loro riparo. Purtroppo tale eccezionale rinvenimento ebbe vita breve, poiché, durante l'ultimo conflitto, le navi recuperate e restaurate andarono bruciate in circostanze tuttora non chiarite, forse per mano di soldati tedeschi in fuga. Ora, purtroppo, dobbiamo accontentarci di ammirare, al Museo delle Navi, situato in riva al lago, nei capannoni che originariamente ospitavano le due imbarcazioni, i modellini in scala delle navi e i pochi resti scampati alle fiamme. Nonostante l'incalcolabile perdita, il Museo è in ogni caso meritevole di visita, se non altro per osservare il repertorio fotografico che documenta la campagna di scavo e le metodologie attuate per il recupero, eccezionali per l'epoca.
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