Periferie del Mondo
Napoli: la decadenza di Scampia
Dal “ventre” alle “vele” tra buoni propositi e assenza di interventi pubblici
Napoli - Una città a misura d'"illegalità" nessun architetto l'avrebbe mai progettata e nessun governante, probabilmente, ne avrebbe mai agevolato lo sviluppo. Fatto sta che Napoli nella sua storia centenaria ha subito un'evoluzione solo di facciata.
Di facciata era quel "Real Albergo dei Poveri" voluto da Carlo di Borbone nel 1751 per "ospitare" i senzatetto, i mendicanti e gli accattoni che vagavano nella città. Un modo per nascondere povertà e disagi sociali, un'infamia per una città che ambiva a divenire una delle più grandi capitali d'Europa.
Di facciata è anche quel "Rettifilo" - chiamato proprio così dai napoletani - che collega la stazione ferroviaria al porto e al centro storico della Napoli borbonica. Fu costruito dopo l'unificazione, per volere di Agostino Depretis, non per risolvere l'annoso problema abitativo - al contrario, furono abbattuti tutti i palazzi che sorgevano proprio dove oggi c'è Corso Umberto I -, ma per evitare che l'accesso al cuore della città comportasse il passaggio nel "Ventre di Napoli". Così aveva definito all'epoca, con amarezza, la giornalista Matilde Serao quell'insieme di vicoli fatiscenti con odori nauseabondi, fatti di palazzi decadenti abitati da famiglie povere e straccione, spesso costrette a convivere promiscuamente in pochi metri quadri, dedite ad attività precarie ed irregolari.
Di facciata sarà poi l'assetto socio-urbanistico con cui la città si presenta nell'età repubblicana: il lungomare dal porto a Posillipo e il Vomero abitato dalle élites in spazi ampi e non promiscui, e un "Ventre", invece, sempre più gonfio e incapace di ospitare dignitosamente i ceti popolari e sottoproletari. È così che inizia la costruzione edilizia nelle periferie con lo scopo di decongestionare il centro urbano.
Il progetto
Lo Stato fece la sua parte con il piano Ina-casa, varato nel 1949. Il piano prevedeva nel casale di Secondigliano a Napoli la costruzione di case popolari che furono abitate a partire dal 1957. Poi venne la legge 167 del 1962: i comuni con più di 50.000 abitanti furono invitati a "formare un piano delle zone da destinare alla costruzione di alloggi a carattere economico e popolare, nonché alle spese e ai servizi complementari, urbani e sociali ivi comprese le aree a verde pubblico".
A Napoli il piano per l'insediamento abitativo della 167 fu elaborato dalla Commissione presieduta da Piccinato, che stava lavorando anche al Piano Comprensoriale della città. Quest'ultimo prefigurava per Napoli uno sviluppo urbano che fosse in grado di opporsi alla casualità e all'irrazionalità dello sviluppo precedente. L'espansione della città, infatti, venne individuata in due aree: Secondigliano e Ponticelli, lungo una direttrice Nord Nord-Est. Il baricentro della città si spostava così verso l'interno della provincia con l'obiettivo di diffondere sul territorio un sistema di centri urbani. Il piano confluì nel piano regolatore di Napoli del 1972.
Sulla carta i progetti di queste aree erano estremamente interessanti, se non rivoluzionari. Per esempio, al momento del loro concepimento, le sette Vele di Scampìa (progettate dall'architetto Di Salvio e ultimate nel 1982) erano unità abitative di concezione estremamente ardita, che dovevano realizzare intenti quasi "utopici". Come in molti casi simili l'intenzione del progettista era evidentemente quella di plasmare le forme della convivenza civile nelle forme delle strutture architettoniche: le Vele, in grado di ospitare centinaia di nuclei familiari, dovevano divenire veri e propri edifici-rione, favorendo l'integrazione tra gli abitanti.
Attorno, la disposizione urbanistica era quella tipica del funzionalismo: grandi viali di scorrimento rapido che avrebbero consentito collegamenti veloci ed agevoli, le grandi torri abitative divise da parchi e giardini avrebbero permesso la divisione tra funzioni abitative, amministrative e commerciali. Una città-modello, insomma.
Ma qualcosa non è andata secondo i piani se, nel giro di una decina d'anni, Scampìa è diventata tristemente famosa, sia a livello locale che nazionale.
L'insediamento
Scampìa iniziò a popolarsi tra il 1976 e il '77. Dopo il terremoto del 1980, che colpì anche Napoli, ai vincitori dei bandi di case popolari si aggiunsero numerose famiglie che provenivano dalle altre periferie e dal centro storico della città colpiti dal sisma.
In verità nelle "Vele", nei palazzi dei lotti L ed M - così chiamati per la loro forma architettonica che assomiglia alle vele delle navi - pochi saranno gli abitanti che vi si insedieranno in quanto assegnatari di quelle abitazioni. Molte invece sono le famiglie che occuperanno le strutture: i senzatetto storici, gli abitanti temporaneamente sistemati nelle Vele dal programma straordinario post-terremoto (che poi sono quelli che ancora oggi attendono la costruzione di nuove abitazioni), altre famiglie di disperati che occupano gli spazi al pian terreno degli edifici Vele che non erano adibiti però ad uso abitativo. Un insieme di famiglie, in sostanza, accomunate dall'esigenza pressante di avere un tetto sulla testa e caratterizzate da un basso livello reddituale.
Alla fine degli anni Ottanta, comunque, Scampìa può dirsi completata: la Circoscrizione nata nel 1987 rimane tutt'ora la più giovane circoscrizione del comune di Napoli.
L'assenza dello stato e l'illegalità
La dinamica perversa che ha trasformato l'utopica città-giardino nell'anti-utopico ghetto di periferia non ha una sola causa.
Senz'altro la più rilevante è l'incapacità da parte dei governi locali di gestire in modo efficiente e corretto la realizzazione di un progetto tanto vasto ed ambizioso. Ma anche l'aver dato la precedenza assoluta alla costruzione degli alloggi, trascurando tutto il necessario sistema di servizi che avrebbe invece dovuto innervare il tessuto urbano. Un quartiere con 44.000 abitanti (il dato ufficiale è largamente sottostimato) e neanche un negozio - solo nel 1998, ad oltre 20 anni dall'insediamento degli abitanti, iniziano ad aprire i mercatini rionali -, un asilo nido, una palestra. Fatto ancor più grave è che solo nel 1997 viene aperto un commissariato di Polizia nella zona: una inadempienza che ha portato ad oltre quindici anni di totale mancanza nel territorio di un presidio delle forze dell'ordine. Quest'assenza protratta ha lasciato segni profondi sulla società locale che ha "legato" nel frattempo con i clan camorristi della zona.
Il quartiere Scampìa diviene uno dei principali mercati per l'imprenditorialità criminale: spaccio e consumo di droga, commercio di sigarette di contrabbando, scommesse clandestine (il quartiere è stato ripetutamente teatro di combattimenti di cani), e partecipazione di gruppi criminali allo smercio abusivo di prodotti ortofrutticoli.
Problemi sociali da "terzo mondo"
Lo chiamano anche "Terzo mondo" e a ragione. Qui il primo problema è quello demografico: gli abitanti "ufficiali" sono circa 44.000, ma stime più realistiche parlano di 70.000-80.000, quasi il doppio.
Viene poi l'alfabetizzazione. I residenti provvisti di titolo di studio sono il 74,5%, oltre cinque punti percentuali in meno rispetto a Napoli (79,9%). Se si scompone il dato per tipologia di titoli di studio, si nota che la differenza è più consistente per i titoli più elevati: i laureati a Napoli sono il 5,6%, mentre a Scampìa essi non raggiungono l'1,0%; i diplomati sono a Napoli il 17,8%, mentre a Scampìa restano sotto il 10,0%. Superiore alla media cittadina anche il numero di alfabeti privi di titolo di studio (13,9% a Scampìa contro il 10,8% a Napoli). E non si tratta di persone anziane, ma di giovani: mentre a Napoli il 14,9% degli alfabeti privi di titolo di studio è al di sopra dei 65 anni, a Scampìa la percentuale è pari circa alla metà. Risulta più elevata anche la percentuale di analfabeti, con una significativa inversione del rapporto analfabeti/laureati rispetto al comune e al contesto nazionale: mentre in Italia (e a Napoli nel suo complesso) i laureati prevalgono sugli analfabeti, a Scampìa lo 0,7% di laureati viene schiacciato da un 3,1% di analfabeti.
A questi dati sconfortanti si deve aggiungere una forte disoccupazione giovanile, nettamente superiore a quella media della città (54,9% contro 41,7%). Se tutto questo viene proiettato su uno sfondo caratterizzato da una forte presenza giovanile ed infantile, ne esce un quadro di emergenza scolastica che è indice di un grave disagio socioculturale del quartiere.
La composizione dei nuclei familiari rivela una prevalenza di strutture familiari tradizionali, se non arcaiche. I dati relativi alla distribuzione delle famiglie residenti per ampiezza mostrano che a Scampìa le famiglie numerose (5 membri e più) sono più consistenti che a Napoli nel suo complesso; in particolare, quasi 11.000 residenti fanno parte di famiglie con sette o più membri (queste ultime costituiscono il 13,6% dei nuclei familiari, contro il 3,7% della media cittadina).
Uguaglianza "formale" a Napoli
Con la situazione drammatica di Scampìa e di altri quartieri "fratelli", Napoli è, tra le città italiane ed europee, quella che presenta il più alto tasso di disuguaglianze sociali, dovuto anche all'assetto urbanistico della città.
Nel "quartiere dormitorio" di Scampìa esiste una disomogeneità sociale, in particolare fra i ceti medio-bassi, rimarcata dal fatto che questi ceti abitano ognuno in isolati diversi, senza spazi comuni come piazze, giardini, parchi (questi in realtà ci sono, ma non sono frequentati per paura della microcriminalità). Proiettando, invece, la questione Scampìa sull'intera città di Napoli è evidente la divisione tra zone abitate da ceti medio-alti e zone abitate da ceti medio-bassi. Una divisione che non fa che accentuare le differenza sociali e culturali tra gli abitanti della stessa città, una ghettizzazione tale da alimentare sentimenti quali l'invidia, il desiderio di possesso mirando ad una elevazione economica da ottenere in qualsiasi modo. Tutto ciò, accompagnato da fattori come l'ignoranza, il bullismo, la criminalità organizzata o meno, crea una miscela esplosiva che mette in pericolo la società intera.
Scampìa, come le periferie di Parigi date alle fiamme da giovani insoddisfatti ed emarginati, è la prova evidente che uno sviluppo di stampo capitalistico, all'interno di un tessuto sociale caratterizzato da forti disuguaglianze interne, può essere pericoloso se non è filtrato da un valido intervento pubblico che crei localmente opportunità di lavoro e occasioni di incontri.
Occorrono politiche che portino al coinvolgimento di tutti i ceti sociali verso l'obiettivo condiviso del benessere della comunità intera.