di Alberto Foresi
La mafia siciliana è un fenomeno storico e, per quanto i suoi usi e le sue regole siano mutati nel tempo, seguendo l'evoluzione della nostra nazione e di tutti i luoghi in cui ha affondato le sue radici, è proprio nel tentativo di individuarne le origini e di ricostruire i suoi cambiamenti che si può trovare una qualche chiave di lettura per comprenderne l'attuale realtà.
Le sue origini risalgono probabilmente al periodo tra il XVIII e il XIX secolo. In quel periodo, mentre nel resto d'Europa si tende al rafforzamento del potere centrale, in Sicilia si assiste alla frammentazione del potere e, conseguentemente, della legalità. I signori feudali entrano ben presto in concorrenza con il potere centrale e con i suoi deboli rappresentanti locali; i ceti più poveri, ma anche la borghesia mercantile, soggetti al potere e agli abusi di baroni, funzionari e gendarmi, corrotti e non in grado di garantire l'ordine pubblico. In questo contesto si realizza una privatizzazione della violenza, anche come premessa di sicurezza: nobiltà, clero, corporazioni e società mercantili provvedono da sole alla propria sicurezza personale e a quella dei propri interessi, ingaggiando gruppi di facinorosi sino a creare delle vere e proprie milizie organizzate. Questi gruppi, ben presto, cominciarono a mettersi in proprio, costituendosi in sette o cosche, sottoposti a regole ferree e segrete per sostenersi vicendevolmente e potersi così opporre a tutti quei poteri che avevano sino ad allora goduto dei loro servigi.
Con il formarsi di gruppi organizzati in un territorio dove i suoi membri sono ben conosciuti si forma progressivamente quella che oggi chiamiamo mafia. Il fatto che i suoi membri fossero conosciuti e riconoscibili per il proprio operato agli occhi del resto della popolazione costituisce la peculiarità del mafioso rispetto al criminale comune: quest'ultimo, per le sue azioni, accetta di vivere un'esistenza separata dal contesto civile e legale. Il mafioso, al contrario, è un criminale che non rinuncia ad esercitare un ruolo nella società e usando i suoi mezzi illegali cerca di piegare il potere legale ai suoi fini, senza opporvisi apertamente. Proprio per questo il mafioso necessita di una rete di amicizie e di complicità in grado di trarlo d'impaccio nel minor tempo possibile cosicché egli possa presentarsi, nonostante la sua risaputa colpevolezza, agli occhi dei suoi concittadini, magari nella piazza principale del paese, dimostrando a tutti il suo potere. Il sorgere di questo nuovo fenomeno, sociale e criminale, non passò inosservato. Già nel 1838 il funzionario borbonico Pietro Calà Ulloa scriveva in una relazione inviata ai suoi superiori che "in molti paesi ci sono fratellanze, specie di sette senz'altro legame che quello della dipendenza da un capo. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di fare esonerare un funzionario, ora di conquistarlo e di proteggerlo. Molti magistrati coprono queste fratellanze di una protezione impenetrabile." Questo stato di cose, già chiaro agli occhi del Calà Ulloa, divenne via via sempre più palese negli anni immediatamente successivi all'Unità d'Italia, allorché i rivolgimenti risorgimentali porteranno ai vertici del potere, prima locale ma ben presto anche nazionale, nuovi gruppi emergenti che, più o meno consciamente, offriranno spazi sempre più ampi a queste organizzazioni protomafiose tali da consentire il loro progressivo sviluppo sino ai giorni d'oggi.