Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Guerre dimenticate
Darfur cronaca di un conflitto
Febbraio 2003 - Dicembre 2006: quattro anni di guerra che hanno ridotto allo stremo la popolazione del Darfur, la regione del Sudan al confine con il Chad

di Francesco Stefanini

Sembra essere il cuore
del mondo il Darfur. Questo lembo di terra di quasi 200mila chilometri quadrati nel nord ovest del Sudan al confine col Chad; una regione semidesertica e vasta come la Francia, suddivisa in tre zone: Gharb, Janub e Shamal. Pare il cuore pulsante del pianeta che urla di rabbia e dolore e sogni infranti. Sembra una ferita sanguinante al centro della terra, una lacerazione infetta. E sembrava che il recente interesse dei media (inusuale per una realtà "nera" come questa) potesse venire incontro alle tribolazioni di un popolo trafitto, aiutandolo a risollevarsi dalla sua tragedia. Sembrava...

Dal febbraio 2003
un violento conflitto interno tra l'esercito di Khartoum e i ribelli dell'esercito di liberazione del Sudan (Sla-m) ha provocato nel Darfur una grave crisi umanitaria, il cui segno più evidente continua a essere i quasi due milioni di sfollati interni.
Il conflitto del Darfur è complesso: il nord è deserto, attraversato da tribù di allevatori di cammelli; nel centro-sud convivono tribù di agricoltori e pastori che si contendono l'acqua e lo spazio. La regolazione tradizionale dei conflitti prevedeva il rispetto di "corridoi di transumanza" da parte degli allevatori. Tutte le tribù del Darfur, sia quelle "africane" che quelle cosiddette "arabe", sono di religione musulmana ma sono ritenute marginali e disprezzate dal governo centrale di Karthoum, che ha sempre considerato questa provincia con la logica coloniale della "frontiera da conquistare". Si tratta di un conflitto di vecchia data tra le popolazioni della regione (fur, masaliti e zaghawas, dajo, tunjur e tama) e il potere centrale di Khartoum. Stanco delle troppe ingiustizie, del lungo e più totale abbandono, e dei ripetuti assalti delle forze governative, in particolare degli Janjaweed ("uomini a cavallo", miliziani al soldo del governo centrale), lo Sla-m è sorto da qualche anno in Darfur come formazione ribelle organizzata. Dal 1999 sono emerse e sono attive bande armate che, al 2003, hanno provocato qualcosa come duemila morti, tra civili e soldati. Alla base delle rivendicazioni: l'accusa alle autorità del governo sudanese di Khartoum di non offrire sufficiente protezione alla popolazione, esposta alle scorrerie delle bande di predoni (nomadi di origine araba, note col nome di Janjaweed) e bande armate finanziate dal governo sudanese che infestano la zona. Una prima tregua firmata tra governo e ribelli il 3 settembre 2003 non è mai stata formalmente rispettata.
Intanto emerge un dato interessante: al gennaio 2004, in pieno conflitto, studi stimavano che la produzione petrolifera del Sudan si aggirasse intorno ai 300mila barili al giorno, per un corrispettivo di oltre due miliardi di dollari l'anno. A pace fatta i barili sarebbero potuti salire a quasi 500mila barili al giorno entro il 2005 e a oltre 800mila fino al 2010.
Intanto, sul fronte del conflitto, nei primi del 2004 si aggiungono al movimento ribelle altri due gruppi: il Movimento per la giustizia e l'uguaglianza (Jem), e l'Alleanza democratica federale del Sudan. Come accade sempre nei conflitti non è dato di distinguere nei gruppi che proliferano, quelli che operano a fini politici e quelli dediti ad azioni puramente criminali.
Nel marzo 2004 secondo l'ONU erano 130mila i profughi, 700mila gli sfollati interni (un milione, secondo altre fonti) e oltre 10mila le vittime. Le stime anticipano all'8 aprile 2004 il giorno in cui viene firmato il "cessate il fuoco" di 45 giorni tra il governo di Khartoum e i ribelli per far accedere gli aiuti umanitari.

Nonostante tutto
lo scenario sarebbe ancora troppo semplice se tra i ribelli della regione e il governo centrale non ci si infilasse pure la guerra tra il governo e lo Spla (l'esercito di liberazione popolare del Sudan), i ribelli del Sudan del sud che da vent'anni (1982/2002) combattono per l'indipendenza del Sud Sudan popolato da neri cristiani e animisti). Una guerra allora, quella del Darfur tra ribelli e Khartoum, in un'altra guerra più grande.
Va ricordato a questo proposito che il governo e lo SPLA hanno firmato a luglio del 2002 il Protocollo di Machakos nel quale Kartoum riconosce il diritto del Sud all'autodeterminazione, concedendo un referendum dopo un periodo di interim della durata di sei anni, in cambio dell'accettazione da parte dei ribelli del Sud dell'applicazione della legge islamica al Nord del Paese. Uno scambio che, considerate le caratteristiche e l'appartenenza religiosa delle popolazioni del nord, pone le premesse di ulteriori duri conflitti. Così, mentre i mediatori keniani annunciano che il ventennale conflitto del Sud Sudan è entrato nella sua fase finale, i protagonisti della guerra del Darfur minacciano di estendere i combattimenti ad altre zone del Paese se verranno esclusi dall'accordo di pace: "Qualsiasi accordo che ci escluda non potrà mai portare a una vera pace", dichiara Abdel Wahed Mohammad Ahmad Nour, capo dell'Esercito-movimento di liberazione del Sudan (Sla-m) al quotidiano sudanese 'al-Hayat', riferendosi al possibile accordo tra il governo islamico di Khartoum e lo Spla.
La grande siccità del 1985-88 che ha sconvolto profondamente l'equilibrio eco-sociale sembrava essere la causa contingente del conflitto. In realtà in seguito alle numerose vittorie militari riportate fino al 2003 dai due movimenti di rivolta armata (Sla-m e Jem), il presidente sudanese Bechir ha ritenuto di rispondere intensificando i raid dell'esercito nei "villaggi ribelli" e finanziando la milizia degli janjaweed: mercenari arabi con licenza di uccidere.
Dall'aprile 2003
è la solita guerra sporca (e tenuta nascosta): attacchi alle guarnigioni, fughe sulla montagna, rappresaglie contro i civili - "quando non si ha tra le mani coloro che hanno agito, ci si vendica sugli innocenti", dice un testimone oculare - deportazioni di donne e bambini in campi di concentramento, militari e convogli umanitari selettivi, la tattica della terra bruciata, profughi senza meta. La vendetta è un lavoro a tempo pieno. Sul conflitto originario per l'uso delle risorse tra popolazioni locali - acqua e spazio da condividere tra agricoltori e pastori - si è innestato lo scontro politico tra governo centrale e guerriglia, per una maggior autonomia e investimenti per lo sviluppo socio-economico, aggravato dalle violenze e dal saccheggio delle milizie contro i civili. Questa guerra 'a tre livelli', che ha prodotto uno sradicamento (dentro e fuori le frontiere nazionali) di un milione di persone in un territorio abitato da sette milioni, indica con chiarezza le radici profonde delle migrazioni forzate, degli esodi di profughi, in massa o goccia-a-goccia - emorragie invisibili, poco telegeniche ma costanti -, le lotte per il potere e l'identità, l'impoverimento sociale per un'economia di rapina e saccheggio, l'uso perverso e irresponsabile dell'ambiente e del territorio.
“Le conseguenze umane e geo-politiche sono gravide di rischi: la pace in Sudan è tutta da costruire, mentre il Ciad è destabilizzato da una presenza così massiccia di profughi in un territorio fragile, dove presto gli allevatori cominceranno a scendere a sud per le piogge e incontreranno sulla strada i rifugiati e i loro armenti. Nel Darfur, oggi, ci può essere pace solo affrontando contemporaneamente i tre livelli del conflitto, dentro un quadro di dialogo per la costruzione di un Sudan che sia terra, acqua e vita per tutti i suoi figli". Così Mondo e Missione fotografava la realtà del Darfur nel giugno 2004.

La recente cronaca
delle iniziative negoziali messe a punto per porre fine al conflitto che insanguina la remota terra sudanese al confine col Ciad evidenzia a tutti gli effetti una diplomazia a doppio binario. Da una parte vi è l'Unione Africana (Ua) che ha recentemente demolito, a sorpresa, uno dei cardini su cui si reggeva la vecchia Organizzazione per l'Unità Africana (Oua), vale a dire il principio di non ingerenza negli affari interni di un Stato membro. La decisione d'inviare una task-force sotto l'egida dell'Ua è stata infatti praticamente imposta al governo di Khartoum, di fronte alle pressioni internazionali, soprattutto di Washington. Messo alle strette, il ministro degli esteri sudanese, Mustafa Osman Ismail ha saputo esprimere un estro politico che va ben al di là di ogni machiavellica congettura. Non solo ha coinvolto e incoraggiato la Lega Araba nel processo negoziale con l'intento di salvaguardare gli interessi islamici nel Sudan, ma ha anche teso la mano al presidente libico Muammar Gheddafi che ha spiazzato tutti promuovendo un "incontro di riconciliazione sul Darfur" a Sirte.
Nel novembre 2004 sono stati firmati i primi accordi di pace a Abuja, in Nigeria, con l'istituzione di una "no-fly zone" sul Darfur, a stento tollerata dal governo di Khartoum, e, in effetti, spesso violata. Dopo pochi mesi, in Kenia, è stato firmato l'accordo che conclude un estenuante negoziato avviato due anni prima, sotto la forte pressione della comunità internazionale, per comporre il conflitto tra i ribelli del Sudan del sud e il governo, nel quale si pongono le regole per la spartizione del potere e dei proventi petroliferi.

Il resto è storia
di questi giorni tra un batti e ribatti e tentativi di siglare un accordo di pace tra i ribelli e il governo andato in porto solo con l'Esercito di Liberazione del Sudan (SLA) uno dei tre gruppi ribelli. Ma la pace è ancora lontana.
"Una violenta offensiva dell'esercito governativo è in corso dall'inizio della settimana nel Darfur occidentale, uno dei tre stati che compone l'omonima regione nell'ovest del Sudan. Lo riferiscono fonti Onu sul posto, precisando che i combattimenti starebbero interessando soprattutto la zona di Kulbus, nell'area di Jabel Moon, 80 chilometri a nord di El Geneina, capoluogo dello stato. Gli osservatori dell'Onu fanno sapere che il corridoio nord diretto verso Kulbus è stato interdetto alle attività delle Nazioni Unite. In base alle informazioni raccolte l'offensiva sarebbe stata lanciata a partire dal 29 ottobre contro alcune presunte postazioni del Fronte di salvezza nazionale (Nrf, Nation redemption front), la coalizione che raccoglie i gruppi ribelli ancora attivi in Darfur. Secondo le testimonianze giunte all'Onu, numerosi villaggi nella zona di Jabel Moon (Hashaba, Habesh, Hajiliji, Hila Awin e Damara) e alcuni oltre il confine ciadiano sarebbero stati attaccati da oltre un migliaio di Janjaweed e da milizie armate delle tribù dei Gimir. Alcuni rapporti riferiscono di 13 persone uccise e altre 7 ferite, mentre bilanci non ancora confermati parlano di 52 vittime", si legge nel bollettino quotidiano del 1 novembre scorso pubblicato dall'ufficio delle Nazioni Unite in Sudan, nel quale si precisa che molte abitazioni sarebbero state date alle fiamme e migliaia di capi di bestiame sottratti. Cifre in parte confermate da un portavoce dell'Onu a New York, secondo cui tra le decine di vittime degli attacchi condotti da miliziani contro 8 villaggi e un campo per sfollati che ospitava 3500 persone vi sarebbero anche 27 bambini sotto i 12 anni.
Le violenze sono state condannate dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, il quale ha chiesto a tutte le parti coinvolte nel conflitto di rispettare il diritto umanitario e ha lanciato un appello al governo sudanese perché prevenga tali violenze.
Tutto ciò mentre da Pechino, dove si trovava in visita ufficiale in vista del vertice sino-africano, il presidente sudanese Omar Hassan el Beshir ha ribadito ancora una volta la sua contrarietà all'invio di una missione Onu in Darfur ringraziando la Cina per "il sostegno fornito in sede di Consiglio di Sicurezza", così un'agenzia MISNA di questi giorni…
Resta l'amaro per una pace appena sfiorata poi subito abbattuta.

 

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