Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Guerre dimenticate
Eppure dicono che non è genocidio
La comunità internazionale assiste impotente al sacrificio di un'intera popolazione in Darfur

di Francesco Stefanini

"Il nuovo Golgota di questa Pasqua è simile a quello di duemila anni fa: montagne aride e semidesertiche, dove un popolo è oppresso, come gli abitanti della Palestina sotto il giogo romano. I centurioni del XXI secolo, nel Darfur si chiamano Janjaweed... dopo quattordici mesi di combattimenti, su questa 'via crucis' sono incolonnati un milione di sfollati e oltre centomila sono ammassati in campi-profughi nel confinante Ciad, gli altri restano in Darfur in attesa del Cireneo che porti la loro croce. L'Onu, questa volta, ha alzato la voce e denuncia il rischio di pulizia etnica, mentre il segretario Kofi Annan minaccia l'intervento militare come estrema risorsa se non verranno aperti corridoi umanitari. Le autorità del Sudan avevano finora impedito l'accesso alle organizzazioni internazionali. Kofi Annan aveva paventato il rischio di un nuovo Rwanda: a dieci anni dal genocidio, tutti in Darfur, cristiani, musulmani, denka, arabi, attendono la fine di un lungo Venerdì Santo e una Resurrezione che lasci nel sepolcro l'orrore della pulizia etnica". Così MISNA - l'agenzia di stampa comboniana, l'unica ad avere notizie di prima mano sugli avvenimenti del sud del mondo - descriveva nel 2004 lo scenario del Darfur.
Ancora nel 2004 il Chad, il vicino Chad, reagisce all'invasione degli Janjaweed che tentavano di attaccare i profughi sudanesi che si erano rifugiati - e lo sono tuttora - nel suo territorio. Sorgono allora i primi contrasti tra ONU e governo di Khartoum. Quest'ultimo ammette "violazioni di diritti umani" nel Darfur, respinge però le accuse avanzate dall'ONU che accusa il regime islamico del Sudan di sostenere le milizie arabe in una campagna di "pulizia etnica" contro la popolazione nera della regione.
Nel frattempo non costituisce "genocidio" quel che è avvenuto nella regione sudanese del Darfur, almeno agli occhi di un gruppo di esperti dell'Unione Europea, appena rientrato da una missione nella zona dove per l'Onu sarebbe in corso la più grave tragedia umanitaria del mondo. "Non siamo davanti ad un genocidio - ha affermato in una conferenza stampa Pieter Feith, inviato speciale dell'Alto rappresentante per la politica estera di Bruxelles, Javier Solana, che ha guidato la missione - È chiaro tuttavia che, progressivi e in silenzio, sono in corso massacri mentre villaggi sono stati bruciati su larga scala".
La cautela dell'Europa (che comunque ha preso in considerazione una serie di misure per mettere fine alle violenze contro i civili del Darfur) contrasta con la posizione del Congresso statunitense che lo scorso 23 luglio aveva adottato all'unanimità una risoluzione nella quale definiva senza mezzi termini "genocidio" le violenze ai danni della popolazione non-araba di questa regione occidentale del Sudan, dove dal febbraio 2003 milizie locali si sono sollevate in armi contro il governo centrale. Khartoum, per tutta risposta, sembra aver delegato in gran parte alle bande armate islamiche il compito di colpire i villaggi abitati da popolazione africana, al posto dell'esercito sudanese nelle cui fila milita una buona percentuale di soldati provenienti dal Darfur, i quali non sono disposti ad ammazzare la propria gente.
Questa spirale confusa di violenza che si è trasformata in una grande emergenza umanitaria, ha attirato anche l'attenzione degli Stati Uniti, in altre circostanze meno solleciti verso le sofferenze dei popoli africani (non risultano analoghe, compatte prese di posizione dei deputati americani sul sanguinoso conflitto nella Repubblica democratica del Congo, per esempio). A differenza del Rwanda nel 1994 - per il quale l'uso del termine genocidio venne di proposito accantonato evitando così l'obbligo di intervento imposto dal diritto umanitario internazionale - il parlamento statunitense questa volta non ha esitato a chiedere alla Casa Bianca di "chiamare le atrocità col proprio nome, genocidio". L'amministrazione di Washington ha scelto però di non usare il termine che, in base alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il genocidio, impone ai 127 Stati firmatari di "prevenire e punire" un reato di questo tipo. Una mossa criticata da alcuni e da altri ritenuta, questa volta, saggiamente correttiva di un eccesso del parlamento.
"Un genocidio, secondo il diritto internazionale, deve essere provato attraverso l'identificazione chiara di un'intenzione di distruggere un gruppo etnico, razziale o religioso. Si può provare tale intenzione in Darfur? Detto questo, si deve affermare che in Sudan, il problema delle 'minoranze' nere non è nuovo." ha scritto Coudray, gesuita del Darfur, il quale aggiunge che nella regione "esiste da tempo un piano che prevede le espropriazioni delle terre e la sostituzione degli sceicchi delle tribù arabe ai capi tradizionali locali."
Quanto poi alla valutazione del numero delle vittime, il ministro degli Esteri sudanese ha recentemente affermato che le vittime in Darfur sarebbero "solo 5mila", documentabili con ispezioni, e non 30-50mila come valutate finora da più fonti.
Il settimanale britannico "The Economist" si era già chiesto se ciò che accade in Darfur possa essere considerato genocidio: "Dal punto di vista del diritto - è la risposta della testata britannica - c'è molta confusione".
Per tutte queste ragioni, nella risoluzione approvata alla fine di luglio dal Consiglio di sicurezza del Palazzo di vetro si ipotizzano al massimo "sanzioni" contro il regime di Khartoum - certamente inviso agli Usa, che lo hanno a lungo tenuto sulla loro lista nera - ma non un intervento militare diretto, finora solo minacciato da alcuni.
Anche l'Unione Africana, che per prima aveva compiuto passi concreti per l'invio di un proprio contingente nell'ovest del Sudan, sembra ora temporeggiare: l'organismo continentale che ha sede ad Addis Abeba, in Etiopia, ha infatti stabilito di rinviare la sua decisione di mandare soldati in Darfur, nonostante la disponibilità di Nigeria, Rwanda e Tanzania a inviare proprie truppe.
Intanto, come illustrato nella cronaca delle notizie che arrivano da quella terra e che trovano spazio su queste pagine, in quella terra martoriata proseguono le violenze e le uccisioni di civili innocenti, senza che si scorga all'orizzonte alcuna possibilità di soluzione del conflitto in atto.

 

Genocidio

Il genocidio è una pratica che risale probabilmente ai tempi delle conquiste occidentali delle Americhe, ma che solo piuttosto recentemente è stata ben definita e ne sono stati delineati i confini sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista pratico.
Questo crimine viene coniato per la prima volta da Raphael Lemkin, docente dell'Università di Yale, (1944) "per genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico (che) intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della, lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi[...]".
Questo crimine, rivolto contro "l'estraneo alla comunità", non scaturisce da moti spontanei. Infatti, le caratteristiche peculiari del genocidio sono la programmazione e la premeditazione dell'azione. L'intenzionalità, ovvero la traduzione delle minacce di genocidio in azioni concrete mirate a questo scopo specifico, è una caratteristica che distingue il genocidio da altre forme di crimini.
Il genocidio è un delitto di Stato che, in quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. Lo Stato possiede i mezzi tecnici per attuare una tale pratica, possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari ed ideologici che permettono di pianificare e premeditare questo crimine. Altre istituzioni, che non siano Stati, non fruiscono di tali risorse.

 

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