Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Itinerari
Da Roma a Gerusalemme: un pellegrinaggio "necessario"
I posti storici di Gesù fanno da sfondo a conflitti politici e contrasti religiosi

di Fabio Ciarla

Un viaggio in Palestina non è cosa da poco, non solo perché si va in una delle zone più calde del pianeta in cui si sta consumando uno scontro politico e culturale internazionale, non limitato quindi agli interessi e alla situazione contingente locale, ma anche perché in quello stretto lembo di terra si incontrano le tre grandi religioni monoteiste: lì infatti sono nati l'ebraismo e il cristianesimo, e lì la terza, quella musulmana, riconosce nella cupola detta "della roccia" uno dei suoi luoghi più sacri. Per i cristiani la Palestina è un punto di riferimento religioso imprescindibile: sebbene la fede cattolica spinga a non identificare la presenza del Signore in un luogo particolare ma ovunque si celebri l'Eucaristia, l'idea di visitare i posti dove è storicamente accertato che Gesù è vissuto, ha predicato ed è stato crocifisso ha un suo fascino particolarissimo.
Con questi presupposti ha preso vita il pellegrinaggio di fine ottobre in Terra Santa che un gruppo di volontari che fanno servizio nel carcere di Velletri ha avuto modo di compiere. Un gruppo raccolto nel quale è stato possibile vivere molto intensamente e, per quanto possibile, lontano dalla calca solita dei pellegrinaggi la presenza di Cristo, specie in alcuni luoghi.
Il viaggio si è mosso sulle orme di Gesù, a partire dalla sua infanzia a Nazareth, passando per Cafarnao e il lago di Tiberiade, i luoghi della predicazione, scendendo poi lungo il Giordano fino a Gerico, per arrivare infine a Gerusalemme, dove si è compiuto il suo sacrificio. E dove si compirà il destino delle anime di cristiani, ebrei e musulmani. Gerusalemme è però ancora di più: se la Palestina è il centro dell'incontro e, per assurdo, sotto certi punti di vista è soprattutto il centro dello scontro tra le culture che da millenni vi dimorano e tra le tre religioni monoteiste, la città è a sua volta il centro della Palestina e quindi in essa si concentra tutta questa ricchezza e con essa tutte le tensioni ad essa inevitabilmente collegate.
Quasi a voler simbolicamente "chiudere un cerchio", a qualche chilometro dal luogo dove Gesù è stato ucciso e sepolto c'è il luogo dove è nato, quella Betlemme che si trova in territorio palestinese e che dà il polso della questione politica che agita il medioriente. Una situazione e una tragedia che non può essere dimenticata nemmeno in un pellegrinaggio: non fosse altro che per il passaggio obbligato attraverso quel muro con il quale gli israeliani stanno ingabbiando i palestinesi e, forse, anche se stessi. Si tratta di una barriera, eretta ipoteticamente a difesa del territorio israeliano, fatta di pannelli di cemento armato alti otto metri che costeggia, e a volte separa le case, entra nelle strade e ingloba spesso ciò che israeliano non è. Il passaggio attraverso il muro è per i palestinesi un'impresa che richiede ore: costeggiare il muro per raggiungere una determinata località significa spesso impiegare il doppio o il triplo del tempo che si impiegava prima. Ma, soprattutto, la morsa di questo muro intorno ai Territori e lo strangolamento della loro economia di cui esso è causa si stanno rivelando mortali. Tralasciamo la questione politica, che però cercheremo di affrontare in altro modo dando voce a chi nei Territori Palestinesi vive e lavora - come padre Pietro Felet, superiore della comunità Betharram di Betlemme con incarichi anche alla Nunziatura Vaticana, di cui è pubblicata l'intervista nelle pagine precedenti - tralasciamo anche i commenti superficiali di chi ha vissuto una settimana da privilegiato, con controlli alle frontiere assolutamente blandi, essendo chiaramente riconoscibili come turisti e viaggiando su un furgone con targa israeliana, e concentriamoci sul viaggio in Terra Santa.
La gioia del pellegrinaggio spesso turbata dalla vista di un numero impressionante di armi, ha dovuto lasciare spazio alla presa di coscienza che le "divisioni" interne alla fede cristiana non sono affatto né lontane né minoritarie. Per l'italiano medio infatti i termini "cristiano" e "cattolico" sono praticamente sinonimi, ma in Terra Santa l'esplosione delle varie confessioni cristiane ha portato ad una distinzione ben articolata e complessa: qui si definiscono "Latini" i cattolici e quanti si riconoscono nella Chiesa Romana, mentre esistono anche i Greci ortodossi, gli Armeni, i Copti... E non è nemmeno certo che tutte le confessioni si riconoscano in queste quattro definizioni. Questa realtà che divide fra loro i cristiani da una parte aiuta a capire come, per esempio, nelle altre culture i musulmani si dividano in Sciiti e Sunniti - oltre che in altri gruppi minori che di fatto appartengono ai due gruppi maggiori - e, dall'altra pone l'italiano-cattolico medio di fronte ad esperienze nuove che inducono a una nuova consapevolezza. Innanzitutto non siamo assolutamente la confessione universalmente riconosciuta come quella più vicina all'insegnamento di Cristo, e sebbene le differenze con i nostri fratelli Greci ortodossi o Armeni non riguardino i fondamenti della fede è pur vero però che le distinzioni che generano le divisioni non possono essere sottovalutate. L'impegno ecumenico di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI non è puro esercizio formale come si potrebbe tendere a credere in Italia, dove le altre confessioni sono assolutamente minoritarie. È infatti un'assoluta necessità che gli elementi di separazione esistenti vengano rimossi per poter tornare a vivere tutti insieme l'annuncio di Cristo in un cristianesimo universale.

 

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