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Pubblicato su politicadomani Num 68 - Aprile 2007
A fianco degli uomini di peacekeeping italiani
Ci sono buchi in tutte le guerre
Il ruolo dell'Italia in Afghanistan, un paese stretto fra Iran, oppio, terrorismo e dilaniato dalla guerriglia, ultimamente non sembra più così chiaro. Le testimonianze di chi ha lavorato con le forze italiane di pace e il paese lo ha visto in prima persona
di Sponda "I nostri militari a Kabul sono a rischio attentati" è il direttore del Sismi, l'ammiraglio Bruno Branciforte, a lanciare l'allarme durante un'audizione al Copaco (il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti italiani). Come riferisce il quotidiano La Repubblica, Branciforte ha dipinto un quadro a tinte fosche della situazione in Afghanistan. "Le operazioni militari in corso delle truppe Usa ci preoccupano perché hanno innestato un'escalation di violenza che non può non coinvolgere i nostri soldati". Questa la sintesi dell'intervento.
Di certo la posizione dei nostri militari nelle zone di Kabul e di Herat diventa giorno dopo giorno sempre più difficile. E con il moltiplicarsi e il complicarsi degli scenari la probabilità di aggressioni, sia ad opera di gruppi organizzati che di terroristi isolati, è sempre più reale.
Il 22 dicembre del 2001 si è insediato a Kabul il governo di Hamid Karzai, composto, in rappresentanza di tutte le etnie del paese, da 30 membri: 11 pashtun, 8 tagiki, 5 azeri, 3 uzbeki e 3 di altre minoranze. Alla fine dello stesso mese sono giunti a Kabul i primi contingenti della Forza internazionale di sicurezza (ISAF, International Security Assistance Force). Un gruppo di 37 paesi per un totale di 31 mila uomini. Oggi l'Italia è presente in Afghanistan con circa 1900 uomini: nella capitale Kabul sono dislocati reparti di terra dell'Esercito, gruppi per la protezione da attacchi Nbc (Nucleare-biologico-chimico), genio trasmissioni e carabinieri per il controllo del territorio in prima linea; ad Herat i nostri soldati sono ufficialmente inseriti nel quadro del processo di ricostruzione dell' Afghanistan, PRT (Provincial Reconstruction Team), stabilito in sede NATO.
Dal marzo 2005, le nostre forze hanno la responsabilità sia dell'allestimento sia della conduzione della Base Avanzata di Supporto Logistico iniziale, FSB (Forward Support Base) presso l'aeroporto afgano. L' FSB è deputata a fornire il supporto logistico ai quattro PRT operativi nella regione nord-occidentale: italiano, spagnolo, lituano e statunitense. Usa e alleati hanno posizionato in Afghanistan 23 PRT, Provincial Reconstruction Team. Tra marzo e dicembre 2005, le tonnellate di materiale logistico movimentato ad Herat sono aumentate costantemente fino a 18.000 tonnellate e per consentire questo movimento l'aeroporto militare di Herat è stato ampliato con fondo a cemento spessorato e si estende oggi per oltre 50.000 mq. Esso è servito da infrastruttura e torre di controllo del traffico aereo. Dal 2005 al 2006 ad Herat sono arrivate attrezzature dall'Italia con la spola dei C130J in dotazione alla 46° Aerobrigata di Pisa: centinaia di tonnellate di attrezzature e materiali per la costruzione di 62.000 mq di baraccamenti e strutture conteinerizzate, singole e a pila, per centrali di radioassistenza, di scoperta radar, di in e out satellitare.
Negli ultimi 12 mesi, in un clima di apparente quiete e in una situazione di apparente "cessate il fuoco" si sono create invece le condizioni per una recrudescenza dei problemi etnici interni al paese, per la proliferazione di atti terroristici e per un aumento vertiginoso e incontrollato della produzione di oppio (intorno al quale gira l'intero sistema di rapporti tra signori della guerra, latifondisti, talebani e mercanti internazionali). In questo quadro, elementi stranieri, specialmente se armati, vengono ritenuti non più solo scomodi, ma dannosi e diventano oggetto di "avvertimenti". "Tutte le notti venivamo svegliati da colpi di mortaio, esplosioni, detonazioni più o meno lontane. Una o due volte sono certo di aver sentito dei traccianti sorvolare la tenda. Ho scelto di andarci e l'ho fatto con convinzione, ma credo che popolazione locale e militari italiani non vogliano questa situazione. C'è confusione di potere". Sono le parole di R.G. sottufficiale in missione nel 2006 ad Herat.
Quanto è successo all'inviato di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, rientra probabilmente nella lotta per la gestione dei territori da parte di singoli uomini di potere come i mullah e quindi estranei alla logica della guerriglia contro l'invasore.
L'Italia ha già subito otto perdite, caduti a causa di incidenti e di attentati. Anche se la regione di Herat viene considerata zona a basso rischio, per la sua economia relativamente fiorente e per una condizione sociale anch'essa relativamente tranquilla, che assicura il rispetto di alcuni diritti, il rapporto fra la popolazione e i militari italiani ha subito una certa incrinatura. Inizialmente infatti le relazioni erano basate sullo scambio di servizi per la popolazione e l'ospitalità cordiale per gli italiani. "Sì, le regole d'ingaggio sono state implementate. Chi andrà a sud avrà la possibilità, qualora attaccato, di rispondere al fuoco in maniera più pesante. In più, ad esempio, i militari potranno fare irruzione in un'abitazione dal cui interno abbiano sentito partire un colpo d'arma da fuoco", ha spiegato il portavoce dello Stato Maggiore della Difesa. Questo non vuol dire, precisa il portavoce, che i nostri militari si comporteranno diversamente a Kabul e a Herat: quella in cui essi sono impegnati resta infatti una missione di peacekeeping. Sembra confermare questo punto di vista ancora R.G., che dice: "Non è vero che gli italiani tendono ad imitare l'atteggiamento da cow boy degli americani. La mentalità è diversa, anche dal punto di vista militare. Fatta eccezione per qualche singolo o gruppi specializzati, l'italiano ha sempre un'impronta pacifica e di tendenza al dialogo con la gente del posto. Lo sforzo è sempre quello di fargli capire che siamo lì per aiutarli, ma per un 'ospite autoinvitatosi' è sempre difficile farsi accettare. Questo lo capisco".
In ultima analisi va considerato un altro punto fondamentale: la questione geografica. Il confine iraniano situato a ovest dell'Afghanistan ha senz'altro influenzato e complicato soprattutto l'area d'interesse italiana. Day Kundi, Nimroz, Uruzgan, Zabul, Helmand e Kandahar sono considerate per ragioni diverse, le città più a rischio. Inoltre, la condizione dell'Iran, stretto fra i confini iracheni e quelli afgani, entrambi con "frequentazioni straniere", fa dei confini i luoghi più caldi. Ancora R.G. ci dice in proposito: "Alcuni colleghi che ho sentito ultimamente mi hanno confidato che da quando si paventa la questione iraniana e un possibile allargamento del conflitto, la situazione, se possibile, si è ancora di più infiammata". Dall'occupazione sovietica ad oggi l'Afghanistan non ha più vissuto un solo giorno di pace. Il paese è arrivato al suo ventiquattresimo anno di guerra e non sembra ci siano le condizioni per un cambiamento del panorama futuro. Inevitabile quindi che anche in Italia la questione Afghanistan stia diventando terreno di battaglia sia all'interno del governo, sia fra maggioranza e opposizione. Rimane, problematica, l'affermazione di Arturo Parisi, il nostro Ministro della Difesa: "l'Italia non si assumerà impegni maggiori, ma non si ritirerà da quelli già presi in Afghanistan".
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