Pubblicato su Politica Domani Num 7 - Sett/Ott 2001

Cosa rimane dopo il G8
INFINITA TRISTEZZA
Riflessioni dovute su un movimento in movimento

 

Giorgio Innocenti

Infinita tristezza, delusione; bisogno di trovare delle responsabilità, dei colpevoli, di dare una spiegazione alle teste spaccate, alle auto bruciate, alle divise infangate. Questo rimaneva all'indomani dell'indegno spettacolo che abbiamo offerto al mondo dalle strade di Genova. E poi la confusione: un'assoluta incapacità di ricostruire gli eventi mettendoli in una qualche relazione causale fra loro.
Ancora oggi, ad oltre due mesi di distanza, quella cortina di fumo che impedisce di coordinare pensieri ed osservazioni non accenna a diradarsi, come se i fumogeni non fossero ancora spenti e le grida, ogni qualvolta tentiamo di pensare a quei fatti, si alzassero alte ad impedire ogni ragionamento, a spingerci verso il rifugio sicuro di qualche spiegazione preconfezionata, costruita su esperienze televisive.
Rimangono tante domande senza risposta: chi ha orchestrato tutto ciò? a chi poteva giovare tanta violenza? cosa ha determinato l'assurdo comportamento delle forze dell'ordine? Ed i "blocchi neri"? davvero sono solo dei ragazzacci incontratisi a Genova senza alcun coordinamento, animati dall'intento di sfasciare qualche vetrina? Confusione, come dicevo; ciò che appare chiaro è che il movimento non può continuare navigando a vista: deve fare chiarezza sui fini che intende perseguire e sui mezzi che vuole utilizzare.
Il "popolo di Seattle" si sa è stato fin dal principio incredibilmente eterogeneo. Questo perché non è mai stato un'associazione, ma piuttosto la somma di associazioni ed individui, d'estrazione assai diversa tenuti assieme dal dissenso verso una gestione delle risorse mondiali ingiusta e dissennata. Ciò ha determinato una gamma di soluzioni prospettate che varia da accorgimenti per temperare il mercato a forme più o meno marcate di socialismo fino a proposte neo luddiste. Altrettanto eterogenei sono i metodi di protesta messi in atto che vanno dal consumo critico alla disobbedienza civile alle manifestazioni di piazza. Se in una certa misura opinioni diverse ben gestite possono rivelarsi una ricchezza, il movimento deve essere unanime nel condannare la violenza. Il rifiuto della violenza non è solo una questione ideale o morale, ma nasce da una considerazione funzionale: la violenza è totalmente inutile, mette paura, distoglie dai contenuti, fa perdere consenso. Un movimento che spinge per il cambiamento deve mirare al consenso, soprattutto se si muove in un sistema democratico e di diritto (come nonostante tutto rimane il nostro) che permette mutamenti non cruenti, anche se difficoltosi a causa del naturale immobilismo di una società in cui è presente un benessere diffuso.
Primo passo per ottenere consenso è essere conosciuti, ottenere copertura mediatica. I vari movimenti che da anni si battono per una globalizzazione equa non hanno mai avuto tanta attenzione dai media quanta ne hanno avuta le folcloristiche (ma spesso anche violente) manifestazioni che si sono susseguite da Seattle in poi. Queste ultime"fanno notizia", ancor più se ci sono atti di violenza, ma è difficile parlare di contenuti nelle piazze dove si comunica per slogan: un movimento per una globalizzazione più equa diventa "no global"; tutto è ridotto a frasi sintetiche ed eufoniche, a coretti da stadio, le istituzioni che si criticano diventano "il nemico". È facile infiltrarsi per dei facinorosi, che ignorano completamente i fini del movimento, e che però sono identificati con esso dall'opinione pubblica.
D'altronde non possiamo negare che le manifestazioni tenutesi nell'ultimo anno hanno determinato, nell'opinione pubblica italiana, una superficiale (ma senza precedenti) attenzione per tematiche legate alla globalizzazione. Esperienze di confronto, come quella eccezionale di Porto Alegre (vedi P.D. 02/03/2001), sono state invece sottovalutate dai media.
S'impone una domanda: anche alla luce dei tragici fatti di Genova, quale uso deve fare il movimento delle manifestazioni di piazza? Bisogna intendesi sul senso da dare a questa parola: manifestare significa "rendere manifesto", comunicare. Quindi per prima cosa deve esserci qualcosa da comunicare, va in altre parole approfondito il dibattito sugli obiettivi da raggiungere nel lungo e nel breve periodo. Poi si deve pensare alle forme di comunicazione più adatte a raggiungere il maggior numero di persone possibile. Le manifestazioni di piazza sono ancora utili, ma devono rientrare in quest'ottica: sfruttare l'occasione di un vertice internazionale come palcoscenico globale per convincere la gente che è possibile condizionare il potere economico modificando i nostri consumi ed il potere politico con il voto. Rimane un dubbio: è plausibile che i ricchi (noi) rinuncino al loro tenore di vita per garantire un futuro ai propri figli ed un presente al resto del genere umano?

 

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