Pubblicato su Politica Domani Num 8 - Novembre 2001
Editoriale
FINE DI UN'EPOCA
Maria Mezzina
9 novembre 1989 -
11 settembre 2001.
Si volta pagina; salutiamo ancora una volta la fine di un'era.
Le speranze suscitate dalle macerie del muro di Berlino sono state travolte
da queste altre macerie delle torri gemelle, nelle quali insieme a quei
poveri corpi si sono disintegrate tutte le sicurezze che ci eravamo
costruiti, a partire da quella prima data, una volta liberati dalla
paura di uno scontro nucleare USA-URSS.
Erano sicurezze basate
sulla "superiorità" della nostra tecnologia, sulla
crescita apparentemente inarrestabile della nostra economia, sul consolidamento
del nostro benessere, su un supposto miglioramento del nostro stile
di vita. Il fatto poi che quel "nostro" fosse riferito solo
al 20% della popolazione mondiale era cosa nota ma distante. Con quell'altro
80% i contatti erano solo sporadici. Eppure poco più lontano,
su quelle terre una volta giardini dell'occidente, custodi di testimonianze
di grandi civiltà, popoli spesso sfruttati e usati in passato
come strumenti di pressione da potenze rivali, abbandonati al loro destino
e alla loro povertà da un occidente soddisfatto, si dibattevano
e premevano alle nostre porte. Si sono spostati a milioni per sfuggire
a condizioni di sofferenza e di morte. Ma quelli erano problemi lontani,
di straccioni che non potevano preoccupare più di tanto l'occidente
gaudente e corazzato, con la sua avanzatissima tecnologia e il suo diffuso
benessere economico. Si stava dimenticando l'uomo, anche nei nostri
rapporti interpersonali. Soprattutto si stavano dimenticando le sofferenze,
la fame, la disperazione di tanti uomini, donne, vecchi, malati e bambini
dell'Africa, del Medio Oriente, dell'India, dell'America Latina, per
i quali la moderna età dell'oro non è mai arrivata. Abbiamo
chiuso gli occhi e la mente anche davanti alle immagini che la TV ci
portava in casa (immagini virtuali?) e alle notizie che pescavamo da
internet (provate a collegarvi con UNIMONDO e da lì provate a
percorrere le strade suggerite da questo supersito interculturale; oppure
provate a collegarvi con RAWA, le cui aderenti sono state condannate
proprio in questi giorni dal governo dei talebani alla morte per lapidazione,
per capire cosa c'è sotto il burqa delle donne afgane).
Quegli aerei-proiettile contro le torri gemelle, quei taglierini che
hanno tenuto in scacco passeggeri ed equipaggio e hanno permesso l'eccidio,
hanno colpito al cuore tutto l'occidente avanzato e hanno distrutto
le basi stesse della sua sicurezza. Un attacco frontale a cui - è
stato promesso - seguiranno altri attacchi, più subdoli, con
armi chimiche e batteriologiche, capaci persino di colpire individui
con determinate caratteristiche biologiche (bombe etniche), provenienti
chissà da chi e chissà da dove.
Non avere previsto quanto sarebbe accaduto non è stato solo un
goffo errore di sottovalutazione del pericolo terrorismo commesso dalla
CIA, è stato piuttosto la conseguenza di un atteggiamento generalizzato
di presuntuosa certezza della superiorità e inattaccabilità occidentali di cui siamo tutti colpevoli.
Eppure i sintomi c'erano tutti. Sulla TV scorrevano quotidianamente
le immagini di quei ragazzini che lì, nella striscia di Gaza,
continuano a tirare non più solo pietre contro le postazioni
israeliane. Gli archivi della RAI sono pieni di interviste fatte nei
campi di addestramento per giovani kamikaze arabi pronti a morire per
la causa. La lista di attentati compiuti contro i simboli occidentali
e statunitensi è lunga e parte da lontano. Le fonti di finanziamento
dell'industria del terrore sono note a tutti (personaggi, sceicchi miliardari
con una profonda conoscenza dell'Occidente, vecchie conoscenze dei servizi
segreti, come Osama ben Laden, ma non solo lui). I fondamentalisti islamici,
sostenitori della jihad (comunemente tradotta "guerra santa"),
invece di isolarli come pericolosi, sono stati utilizzati dagli USA;
negli anni '80 dopo l'invasione delle truppe sovietiche e l'esodo in
Pakistan e Iran di oltre cinque milioni di afgani, una raccogliticcia
alleanza di ribelli islamici, i mujahedeen, armati e sostenuti dagli
USA, avevano costretto i sovietici a ritirarsi dall'Afghanistan impadronendosi
del potere. Che l'Afghanistan sia il più grande paese produttore
di oppio e di eroina non è una novità. È piuttosto
stupefacente, invece, come fra tanti obiettivi di guerra non si sia
pensato a distruggere i campi di tali coltivazioni.
Anche la disperazione dei poveri "straccioni" che, condividendo
ben poco della situazione politico-economico-religiosa dei loro paesi
d'origine, continuano a fuggire dalla guerra, dalla fame e dall'oppressione
è nota; e si sa quanto sia facile il passaggio dalla disperazione
alla rivolta.
Era tutto noto, tutto prevedibile, eppure siamo stati colti di sorpresa.
Si può trovare in quest'immane tragedia una qualche speranza?
È possibile ripartire da qui, da questo drammatico 11 settembre,
da questa spaventosa sequenza di immagini di una città straziata
(cara a chi scrive per avervi vissuto a lungo ed avere imparato negli
anni ad amarla ed apprezzarla), per trovare fra la polvere e le macerie
qualcosa di solido da cui ripartire, che non sia solo una bandiera al
vento (tradizionalmente simbolo di guerra piuttosto che di pace), una
traccia di strada da percorrere per il futuro, che non sia solo ricostruzione
materiale?
Domenica 14 ottobre c'è stata
la marcia per la pace Perugina-Assisi, pensata e voluta per prima volta
nel 1961 da Aldo Capitini, laico pacifista italiano, discepolo spirituale
di Ghandi.
Pace è una parola impegnativa non riducibile a una serie di slogan
o di cartelloni da portare in corteo. 'LO SVILUPPO È IL NUOVO
NOME DELLA PACE', ci riconosciamo in questa definizione di pace data
da Paolo VI nell'enciclica Populorum Progressio, nel 1967, non riusciamo
a trovarne un'altra migliore.

